Lettera di saluto del Dirigente Scolastico
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Sui figli
Ed egli disse:
I vostri figli non sono i vostri figli.
Sono i figli e le figlie della brama che la Vita ha di sé.
Essi non provengono da voi, ma per tramite vostro,
E benché stiano con voi non vi appartengono.
Potete dar loro il vostro amore ma non i vostri pensieri,
Perché essi hanno i propri pensieri.
Potete alloggiare i loro corpi ma non le loro anime,
Perché le loro anime abitano nella casa del domani, che voi non potete visitare, neppure in sogno.
Potete sforzarvi d’essere simili a loro, ma non cercate di renderli simili a voi.
Perché la vita non procede a ritroso e non perde tempo con ieri.
Voi siete gli archi dai quali i vostri figli sono lanciati come frecce viventi.
L’Arciere vede il bersaglio sul sentiero dell’infinito, e con la Sua forza vi tende affinché le Sue frecce vadano rapide e lontane.
Fatevi tendere con gioia dalla mano dell’Arciere;
Perché se Egli ama la freccia che vola, ama ugualmente l’arco che sta saldo.
Khalil Gibran
Carissimi Genitori,
allevare figli è il mestiere più bello del mondo, è un mestiere che dura per sempre, che ci accompagna in ogni momento della nostra vita, che ci fa sentire vivi, che ci regala emozioni inimmaginabili.
Pur nella consapevolezza che non ci appartengono, sono altro da noi, noi siamo un tramite.
E’ un mestiere difficile, perché è difficile insegnare la libertà di essere, indicare le vie per la realizzazione di sé, tenerli per mano lasciandoli andare.
E’ facile sbagliare. Sbagliamo quando ci sostituiamo a loro, sbagliamo quando spostiamo ogni ostacolo che si presenta sul loro cammino, sbagliamo quando pensiamo che sia sempre colpa di qualcun altro, quando non li educhiamo al senso di responsabilità, al difficile lavoro di raggiungere obiettivi con determinazione e fatica. Dal mio punto di osservazione, registro una sempre più diffusa fragilità e forse dovremmo cominciare a porci qualche domanda. Famiglia e scuola insieme. Sono pochi i ragazzi che, pur trovandosi già negli ultimi anni delle superiori, quindi ormai adulti, affrontano personalmente le eventuali problematiche rapportandosi direttamente con docenti o rivolgendosi a me, dimostrando di aver raggiunto buoni livelli di autonomia, maturità e capacità argomentative. Ecco che allora ci sostituiamo a loro. Eppure i nostri giovani sono persone serie, molto ricche interiormente, competenti. Dovrebbero essere maggiormente valorizzati dalla nostra società, ma spesso questo non avviene.
Insomma, osservo queste dicotomie e credo sia importante condividerle con voi, anche perché sappiamo bene quale sia la complessità dell’oggi e penso anche del domani. Complessità che richiede pensiero critico, flessibilità dell’agire, capacità di rompere schemi per trovare possibili soluzioni, cioè le soluzioni più vicine alla risoluzione di problemi. Il complesso è diverso dal complicato, richiede alte competenze perché una situazione complicata ha un’unica possibile soluzione, anche se difficile da trovare, ma una situazione complessa ha più soluzioni possibili, dobbiamo essere in grado di ipotizzarle e poi scegliere quella che riteniamo più rispondente al caso in esame.
Dobbiamo attrezzarli in questo senso, affinchè siano protagonisti attivi delle loro scelte, affinchè non si adagino nel grigio, lasciando anche che cadano, perché al di fuori della famiglia, al di fuori della scuola, la vita non fa sconti. Devono saperlo.
Sarebbe bello parlarne insieme, famiglia e scuola, creare momenti di riflessione comune, per aiutarci a vicenda nel nostro rispettivo agire educativo. Potremmo essere una vera forza e forse potremmo fare la differenza.
Con queste mie riflessioni vi lascio. Vi ringrazio per la collaborazione avuta in questi miei sei anni al Formiggini, siamo una bella Comunità.
Io scendo, finita la corsa, raggiunto il capolinea.
Ma questa è un’altra storia. La mia, da qui in avanti.
Un abbraccio ad ognuno di voi.
Il Dirigente Scolastico
Christine Cavallari
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“Pensa di vedere degli uomini in una tana sotterranea dalla forma di una caverna, avente l’entrata aperta verso la luce, grande quanto la caverna e che si trovino qui fin dall’infanzia con le gambe e con il collo incatenati, in modo tale da essere costretti a rimanere a guardare solamente di fronte, senza poter voltare la testa a causa della catena, mentre una luce, dietro di loro in lontananza, splenda da una fiamma ardente …”
“Che strana immagine – disse (Glaucone) – e che strani prigionieri!”
“Ma sono simili a noi – risposi io – Prima di tutto, ritieni forse che di sé e degli altri abbiano mai visto qualcos’altro oltre alle ombre proiettate dalla fiamma sulla parete della caverna che sta di fronte a loro?”
Platone
Carissimi ragazzi,
ho pensato a Platone ancora una volta, ebbene sì, nel momento in cui ho deciso di scrivervi questa lettera.
Vi sembrerà strano, avrei potuto pescare nel mare magnum delle citazioni possibili, invece di nuovo Platone.
Perché proprio Platone? Facile da intuire, visto il brano trascritto.
Vorrei prendere le mosse col pensiero dalla metafora della caverna e parlarvi di Bellezza. Di bellezza, sì, perché ne abbiamo bisogno. Vorrei parlarvi anche di Verità, di Bontà e Gentilezza. Perché dobbiamo imparare a costruirci significati autentici ed ermeneutiche non banali del mondo. Per ri-fondare oggi la luce oscurata anche dalle guerre cui stiamo assistendo, luce che dovrà illuminare anche il domani, di questo siamo tutti responsabili, non possiamo voltarci dall’altra parte o far finta di niente, cullandoci nei nostri agi.
Howard Gardner, ad un certo punto della sua vita, ha detto: “Vorrei che le persone che hanno ricevuto un’istruzione potessero capire il mondo in modo diverso da come l’avrebbero capito se non l’avessero ricevuta”. Questo è il punto.
Parlare di bellezza significa porsi delle domande, ad esempio quali siano gli effetti della bellezza su di noi, che cosa implica la visione di qualcosa che riteniamo bello. Oppure, citando Dostoevskij, il mondo sarà salvato dalla bellezza? Ed ancora: qual è il contrario di bellezza?
Domande che si è posta anche Agnes Heller, filosofa ungherese e che troviamo all’interno di un dialogo tra lei e Zygmunt Bauman, il noto sociologo polacco. La risposta a questa domanda è rintracciata dall’autrice nel pensiero del filosofo tedesco Theodor Adorno, quando sostiene che il Bello è una promessa di felicità, quindi non felicità realizzata, ma solamente una promessa, per altro racchiusa in un istante, come ci insegna la storia di Faust, la cui anima viene salvata nonostante il patto col diavolo, perché dichiara bello l’attimo in cui, a seguito di una serie di azioni intraprese, immagina di stare sul suolo libero con un popolo libero. Si tratta infatti di una sua speranza, riferita ad una felicità altrui, non propria e non ancora di una realtà conquistata.
Bauman invece parla dell’utilità delle distopie perché la verità è tutt’altro che bella, piacevole e divertente e deve essere mostrata sempre per come è, in tutta la sua crudeltà.
Egli si ispira in questo al pensiero di Michael Haneke, che considera il più importante filosofo tra i cineasti e il più grande cineasta tra i contemporanei filosofi e cita dell’autore lo straordinario film dal titolo “Il Nastro bianco” dove, con grande maestria, mette in scena il male che si annida tra le pieghe di una morale severa e austera condivisa dagli abitanti di un piccolo villaggio della Germania del Nord, il cui nome Eichwald richiama tristemente Buchenwald, alla vigilia della Prima Guerra Mondiale, dove la vita si sgrana in una monotona ripetitività, fino a quando accadono fatti inspiegabili. Ed entra in scena il male.
La domanda che sottende il film è la seguente: come può il male agire indisturbato proprio attraverso le azioni di persone giudicate buone (a proposito di bontà), secondo i parametri del codice etico del tempo?
“Sono tornato in Austria recentemente e ho visto notizie e titoli in cui comparivano moltissime cose orribili riguardo terremoti ed esplosioni, ma l’intera faccenda era accompagnata da una musica dolce e speranzosa. Tutto era stato commercializzato, reso attraente; era divenuto un programma di intrattenimento. Questo è il pericolo: che si arrivi a non essere più in grado di notare una cosa del genere”[1]
Il sociologo e filosofo polacco si pone poi la seguente domanda: può la bellezza partecipare ad un’azione di miglioramento del mondo rendendolo un posto più ospitale per la vita degli esseri umani, giocando in questo un ruolo significativo? E soprattutto chi potrà essere in grado di agire in tal senso? Bella domanda quest’ultima.
Marco Dallari nel suo A scuola con Afrodite ci presentata la bellezza come emozione, come sentimento che diviene componente fondamentale dell’intelligenza emotiva. La bellezza non abita quindi le cose, ma risiede nell’emozione di un incontro, nella mente che contempla, nella sensibilità, è un’emozione sottile.
Educarsi alla bellezza è quindi acquisire delicatezza dell’immaginazione, perché il contrario della bellezza non è la bruttezza, ma la rozzezza e l’ignoranza emozionale. Concetto affatto banale!
Nel ‘700 Alexander Gottlieb Baumgarten, fondatore dell’Estetica da lui stesso definita teoria della conoscenza sensibile, affermava che la categoria del bello è parte importante del processo di costruzione delle conoscenze, dei giudizi, delle rappresentazioni.
E’ possibile definire la bellezza? Il filosofo Franco Rella la definisce un enigma.
Nel modello classico l’idea di bellezza era riferita alle cose in sé (opere d’arte e non) e alle loro caratteristiche oggettive. Successivamente si comincia a collocare la bellezza non nell’oggetto, ma appunto nell’emozione che scaturisce dall’incontro di qualcuno con qualcosa riconosciuto come bello.
Insomma, la bellezza abita una relazione.
Ma la bellezza, caro Dostoevskij, probabilmente non ci salverà, ahimè, ma ci impedirà di cader preda della disperazione.
“Fermiamoci, fermiamoci per un istante e diamoci il tempo di osservare qualcosa di bello, di far risplendere nei nostri occhi i bagliori che solo la bellezza sa offrirci. Possiamo trovare intorno a noi il bello, nelle persone che ci circondano, nell’ascolto di una sinfonia, nei colori di un quadro, sul volto di un bambino sorridente, nelle montagne luminose che ci circondano, nelle valli attorno a noi, guardando il sole che si posa tingendo di rosso la città, o in un’alba che risveglia le tinte di un cielo rosato”[2] Nel modo di porci improntato sempre alla gentilezza, aggiungo io.
E invece ci facciamo la guerra! Anche noi sì, nel nostro piccolo agire quotidiano, spesso ci facciamo la guerra, non solo gli uomini della guerra che ancora oggi stanno compiendo stragi di innocenti. Anche noi. Incredibile!
Dove risiede quindi la Bontà? Pur nella sua concisione e nell’apparente semplicità, “buono”, sostiene Howard Gardner (Università di Harvard), è un termine che racchiude una notevole complessità. Quel che è «buono» o è «bene» attiene alle relazioni umane, quindi si sostanzia di gentilezza, che ne diventa la manifestazione esterna. Parlando di genitlezza alludo a quell’atteggiamento che dobbiamo assumere come abito, caratterizzato da azioni rispettose e altruiste, da empatia e (com) passione, non finalizzate a tornaconto personale. Insomma, non si tratta di essere cortesi e basta, ma porsi costantemente l’obiettivo di creare legami sociali autentici, promuovere il benessere individuale e collettivo. Bisogna essere forti per assumere questa postura nei confronti del prossimo, non permettendo di farsi contaminare da coloro, tanti, che si pongono sempre più in altri termini, denotando in questo modo profonda fragilità. Sì, bisogna essere forti, e liberi anche, liberi dai condizionamenti, dai (pre) giudizi, liberi di essere la miglior persona possibile.
Da centinaia di anni, anzi da millenni il senso di ciò che è bene o male fare o di ciò che è buono accompagna le nostre relazioni. Entriamo nel campo dell’Etica. Il cittadino etico è un soggetto morale che non va, semplicemente, per la propria strada. Non si alza al mattino chiedendo solo e soltanto il rispetto dei propri diritti, ma si impegna e rischia, aprendosi a un senso di responsabilità più ampio. Quanto, ognuno di noi, sa essere un cittadino etico?
Parlare di bellezza e di bene significa anche parlare di Verità: l’interesse, la curiosità, il desiderio, la tensione verso il sapere rappresentano un fenomeno estetico e riguardano pertanto la dimensione della bellezza, a prescindere dall’oggetto o fenomeno su cui si posano.
Allora sorgono spontanee alcune domande: questo è vero anche nei riguardi del vero? Vi è cioè emozione in esso? E vi è luce? Chiamo di nuovo in causa questa dimensione della luce perché parlando del vero parliamo sicuramente di conoscenza, entriamo nel campo dell’indagine scientifica e quindi, domanda, è un percorso di rischiaramento, come lo definisce Kant, quello che compie l’uomo da uno stato di buio e ombre verso la verità, cioè la conoscenza? E il coraggio di pensare e camminare da soli nel nostro umano rapportarci col mondo dove risiede? Nel rapporto con gli oggetti e le macchine?
I problemi maledetti dell’educativo, li definiva il nostro Dostoevskij.
Scorticare la superficie delle cose, ricercare la verità è nostro compito.
L’indagare ad esempio il rapporto uomo-macchina apre nuove frontiere attraverso le quali lasciar defluire almeno in parte il timore che le tecnologie conducano all’eclissi dell’umano e togliere la testa dalla sabbia. Se il processo del conoscere si nutre di un’interazione costante dell’uomo con l’ambiente, allora ecco che appare chiaro come la tecnologia ci renda appunto umani e che l’uomo sia un essere che pensa con le macchine. Concetti ben espressi da Stefano Moriggi in diversi suoi testi.[3]
La paura di scoprirsi umani risiede proprio qui, nello scandagliare il rapporto tra individui, strumenti/oggetti, ambiente e scoprire, come sostiene Derrick de Kerckove che “siamo le continue creazioni e ricreazioni delle nostre stesse invenzioni” e come ricordava già Pascal nei suoi Pensieri “noi siamo automatismo altrettanto che spirito”. Ciò significa “che siamo animali culturali e la cultura (tecno-scienza compresa, ovviamente!) incarna il più efficace e rapido complesso di strategie di adattamento all’ambiente. E’ in questo senso che la tecnologia ci ha reso (e ci rende) umani”. [4]
Oggi riscontro purtroppo che non vi sia condivisione della scienza come cultura e mentalità diffusa, in grado di fornire strutture diverse di pensiero in ognuno di noi. Quest’epoca ha ben poco di scientifico.
Non ci resta che pensare. “Per pensare diventa albero. Biforcati a sinistra e a destra, non smettere mai di moltiplicare i tuoi rami nel grande spazio. Capta la luce, canta col vento. Penso, dunque biforco. Noi uomini siamo la dissimetria del mondo. La parola indica i nostri scarti dall’equilibrio: ciò che appunto produce movimento. Zoppicchiamo e dunque, per sopravvivere, dobbiamo pensare”[5]. Michel Serres ci dice anche che dal metodo non nasce nulla perché, se pensare è movimento, biforcazione, allora dobbiamo lasciare libero il pensiero di spaziare, di ricercare, di tentare, di osservare, di scoprire, di scardinare, di volare.
Alias Serendipità. Che, come disse il ricercatore biomedico americano Julius H. Comroe, “E’ cercare un ago in un pagliaio e trovarci la figlia del contadino”.
Ragazzi, un caro saluto ad ognuno di voi.
Sappiate portare bellezza in ogni vostra azione, affinchè il mondo possa essere un luogo migliore.
Siate forti. Siate alberi. Captate la luce. Cantate col vento.
Vi penserò.
Sarà strano vivere senza di voi, senza la scuola. Raggiunto il capolinea, si scende.
Cercherò di portare bellezza nei nuovi orizzonti che si apriranno.
Un abbraccio
Il Dirigente Scolastico
Christine Cavallari
[2]A. Heller, Z. Bauman, La bellezza (non) ci salverà, Trento, Il Margine, 2015
[3] S. Moriggi, CONNESSI Beati coloro che sapranno pensare con le macchine, Edizioni San Paolo, 2014
[4] S. Moriggi, G. Nicoletti, Perché la tecnologia ci rende umani, Sironi Editore, 2009
[5] M. Serres, Il Mancino zoppo. Dal metodo non nasce niente. Bollati Boringhieri, 201.